Il viaggio di Muhammad.

Pubblicato il da diariodiungiornalistaprecario.over-blog.it

Napoli. Quella che sto per riportare è la sintesi di un pomeriggio trascorso in compagnia di Muhammad, un bel ragazzo di nazionalità iraniana, nato a Shiraz nei primi anni ‘80. Per rigore di cronaca, devo informare i lettori che Muhammad non è il vero nome dell’intervistato. Dati i contenuti del suo racconto, di comune accordo, abbiamo deciso di non rivelare la sua vera identità, al fine di proteggere i familiari ancora residenti a Shiraz, da eventuali ritorsioni da parte dei servizi segreti iraniani. Dopo qualche convenevole e un simpatico scambio di battute circa la difficoltà dei giornalisti nel trovare un impiego retribuito, sorseggiando un delizioso tè persiano, abbiamo iniziato la IMG_3190.JPGnostra intervista.

 

Mi parli della tua infanzia in Iran?

 

Beh, la mia è stata, senza ombra di dubbio un’infanzia felice, vissuta all’interno di una comunità religiosa Bahà’ì. Solo ora in età adulta capisco quant’era bello quel periodo della mia vita, passato con gli amici della comunità. Giorni felici, spensierati, senza responsabilità, senza preoccupazioni di lavoro, senza i problemi della vita. Poi la mia era, ed è tutt’ora, una bella famiglia, siamo molto uniti, quindi questo ha contribuito a rendere felice quel periodo.

 

Che ruolo ha la famiglia nella società iraniana?

 

Dal punto di vista dei persiani, la famiglia è un’istituzione, qualcosa di veramente importante, e nonostante negli ultimi anni il numero delle separazioni sembri essere in aumento, le famiglie sono considerate ancora come le radici della società.

 

A che età sei emigrato in Italia?

 

Sono giunto in Italia a 18 anni, quindi 9 anni fa.

 

Cosa ha spinto te e la tua famiglia a intraprendere questo “viaggio”?

 

Le motivazioni sono state varie. Ma il motivo principale è stato la voglia di sottrarmi ai maltrattamenti a cui gli appartenenti alla mia religione sono sottoposti in Iran. Il governo non vede di buon occhio la religione Bahà’ì. La considera una setta illegale. Pensa che gli appartenenti a questa comunità, non possono frequentare l’università ufficiale, non possono far parte di associazioni governative né rivestire cariche pubbliche. Noi Bahà’ì abbiamo una nostra università, che però non ha una sede né un edificio: i corsi si seguono all’interno delle case. In compenso la laurea Bahà’ì è riconosciuta in molti paesi del mondo, tranne che dal governo islamico dell’Iran. È un’università ovviamente piccola con poche facoltà. Questo comporta una scarsa scelta. Chi vuole proseguire gli studi deve accontentarsi oppure andare a studiare all’estero. Mio padre, che ha sempre dato importanza all’istruzione dei figli, ha scelto di renderci liberi di studiare ciò che volevamo e così ci siamo trasferiti”.

 

Quindi per il Governo, a causa della tua religione, dovevi rinunciare ad un diritto inalienabile dell’uomo: lo studio.

 

Assolutamente sì!

 

Nell’arco della tua permanenza in Iran, hai mai assistito a dei brutti episodi di persecuzione?

 

Assolutamente sì! Mi ricordo che quando ero piccolo, i guardiani della rivoluzione irrompevano in casa e sequestravano tutti i libri Bahà’ì. Poi dopo la rivoluzione molti componenti della nostra comunità furono arrestati ed impiccati. Ancora oggi so per certo che in Iran vengono raccontate storie assurde su di noi. Ci descrivono come mostri con coda e corna. Così quelle persone non dotate di grande cultura, si sono allontanate da noi, isolandoci dal resto della società. A mio avviso quanto è accaduto e quanto continua ad accadere in Iran è dovuto a quella fascia estremista di musulmani che non rispettano il credo altrui, facendo in questo modo una cattiva pubblicità all’Islam.

 

classe-baha-i.jpgDurante il racconto, l’espressione di Muhammad si vela di tristezza, gli occhi diventano lucidi e la voce si fa più sottile, ma con un atto di grande coraggio trova la forza di proseguire nella narrazione.

 

Ricordo che era difficile anche lavorare, i miei genitori infatti furono espulsi, subito dopo la rivoluzione, in un processo che è stato chiamato La purificazione dei posti di lavoro occupati dagli appartenenti alle sette deviatrici.Mamma era un’infermiera caposala in un grande ospedale di Shiraz, papà invece lavorava in una organizzazione governativa dedita alle telecomunicazioni. In Iran ancora oggi il diritto al lavoro viene calpestato a causa dell’intolleranza religiosa. Una situazione insostenibile, una repressione fortissima.

 

Edmond Haracourt, in un suo componimento recitava i seguenti versi: Partire è un po’ morire rispetto a ciò che si ama, poiché lasciamo un po’ di noi stessi in ogni luogo ad ogni istante. E’ un dolore sottile e definitivo, come l’ultimo verso di un poema… Traendo ispirazione da queste belle parole ti chiedo: Come hai vissuto questa partenza dai luoghi della tua infanzia e cosa hai lasciato di te stesso in Iran?

 

Una grandissima parte di me è rimasta lì nella mia terra. Quando sono partito per l’Italia ho provato una sensazione assoluta, inspiegabile. Pensavo, forse non vivrò più allo stesso modo, andrò incontro ad un’altra società, un’altra vita. Non avevo paura, ma provavo una forte nostalgia nei confronti di quello che stavo lasciando, perché sapevo che non sarebbe stato facile ritornare. Devo tutto all’Iran, sono come un albero che trae forza dalla terra in cui ha ben salde le proprie radici. Dovunque andrò in futuro la mia terra sarà sempre dentro di me e sono convinto di aver a mia volta lasciato qualcosa di buono nella mia patria.

 

Come riassumeresti questi tuoi 9 anni in Italia?

 

Una parte importante di questi anni è stata dedicata allo studio. All’Italia devo la possibilità di frequentare l’università. Ho studiato tanto ed ho conosciuto tante persone eccezionali. Mi sono reso conto di quanto il mondo sia ricco di persone interessanti, che nel loro piccolo hanno tanto da dare. Qui a Napoli nessuno mi ha mai discriminato per la mia fede, a differenza di quanto invece avveniva in Iran. È stato bello essere accolti da una società completamente diversa dalla tua. Ho stabilito dei rapporti di amicizia molto forti. Infatti nei primi tempi, ero molto lento a studiare in lingua Italiana, mentre i miei colleghi ovviamente proseguivano in maniera spedita, nonostante questo però non mi hanno mai abbandonato, mi hanno sempre seguito ed aiutato con grande cura .Credo di aver imparato tanto. Dai diciotto ai ventisette anni, sono molto cambiato, perché l’Italia ha lasciato un segno indelebile dentro di me.

 

Ora facciamo un altro salto nel passato. Dal 1980 al 1988, il tuo paese ha fronteggiato l’aggressione dell’Iraq di Saddam Hussein, in una guerra durissima, che ha visto l’utilizzo, da parte degli aggressori, delle armi chimiche. Tu nell’88 avevi 4 anni, hai qualche ricordo di quel periodo? E della ricostruzione?

 

Beh ricordo i bombardamenti. Ricordo le incursioni degli aerei nemici nella mia Shiraz, ricordo il suono delle sirene e mia madre che abbracciava forte me e mio fratello per poi portarci nei pozzi sotterranei per nasconderci. Ero terrorizzato, mio fratello si nascondeva tra le braccia di mamma. Poi dopo la guerra ricordo che si parlava dei morti, del fatto che furono utilizzate le armi chimiche. Sono stati momenti difficili.

 

Passiamo al 3 agosto 2005. Viene eletto Mahmud Ahmadinejad alla carica di sesto presidente della Repubblica Islamica dell’Iran. Come hai accolto la notizia?

 

In quel periodo mi trovavo in Italia, e non avevo alcuna idea di chi fosse Mahmud Ahmadinejad. Quindi ho vissuto la sua ascesa al potere come una qualsiasi elezione, proprio come i presidenti del passato.

 

Il 13 giugno 2009 Ahmadinejad viene ufficialmente rieletto, ma questa volta impazzano le proteste sulla regolarità delle elezioni. Ne nascono scontri durissimi con la popolazione. I morti sono tanti, un numero indefinito secondo le cronache del tempo. Tu hai visto l’evolversi della situazione dall’Italia. Che idea ti sei fatto?

 

Si continua a dire che in Iran c’è una repubblica islamica, ma sono convinto che in realtà non c’è nessuna repubblica e se c’è non è islamica. Di sicuro c’è una repressione durissima dell’opinione pubblica. Nelle elezioni del 2009, da quello che ho capito stando qui in Italia, molte persone avevano votato per il candidato che si opponeva ad Ahmadinejad, ma alla fine tutto è stato vano. Ora è impossibile sapere con certezza cosa realmente è accaduto, però il non aver permesso al popolo a seguito delle elezioni, di manifestare le proprie perplessità, l’aver sedato le proteste facendo fuoco sulla folla uccidendo centinaia d’innocenti è stata l’ulteriore prova della totale assenza di democrazia. Questa è dittatura.

 

Anche in Libia, Gheddafi per sedare il popolo in rivolta ha usato la forza bruta. Nel suo caso però i rivoltosi, con l’aiuto della Nato, hanno avuto la meglio. Secondo te è stata una buona idea giustiziare questo leder senza un processo?

 

Certo che no! Non si può rispondere ad un’azione cattiva con un’altra azione cattiva. Guardando le immagini della sua cattura e della sua uccisione, confesso di esserne rimasto profondamente scosso. Mi rendo conto delle atrocità commesse da quest’uomo, si parla di prigionieri politici torturati fino alla morte, persone bruciate vive, però secondo me doveva essere portato davanti un tribunale equo per essere giudicato e condannato pubblicamente in maniera civile. Ucciderlo così a bruciapelo è stato un errore. Anche in guerra bisognerebbe conservare la propria umanità.

 

La scorsa estate dopo nove anni sei ritornato in Iran, cosa hai provato percorrendo le strade della tua infanzia?

 

Non mi sembrava vero di essere ritornato. Quando sono sbarcato a Teheran, ho provato un’emozione forte. Per un attimo ho creduto di non essermi mai allontanato. Non mi capacitavo del fatto che erano passati già nove anni dalla mia partenza. Appena arrivato a Shiraz sono andato in tutta fretta rivedere la casa della mia infanzia, subito dopo ho rivisto tutti gli amici che avevo lasciato. È stata una sensazione stupenda, il bello era nel fatto che non avevo dimenticato niente. Ricordavo tutto alla perfezione: ogni strada, ogni luogo, ogni cosa.

 

In questo lungo lasso di tempo cosa è cambiato? Era tutto identico a come te lo ricordavi?

 

Ho notato che le città erano tutte più grandi, come più grande era il livello di repressione del popolo. Ma c’era da immaginarselo. Nonostante tutto però, le persone avevano conservato tutte la gentilezza e la cordialità tipiche della mia gente, non si erano incattivite. Questo mi riempie di orgoglio. A Napoli per esempio, è vero che ci sono tanti problemi, ma si gode di grande libertà di costumi e di espressione… Eppure la gente per strada è arrabbiata, urla e dice parolacce senza che ce ne sia bisogno. Evidentemente in Iran il livello di sopportazione è molto alto.

 

In quei giorni hai avuto problemi con la dittatura?

 

Fortunatamente no, ma quando sono arrivato in Iran ero perfettamente cosciente che stavo rischiando molto. Avrebbero potuto bloccarmi con una scusa qualsiasi e impedire il mio rientro in Italia. Ma nonostante tutto è un’esperienza che ripeterei altre mille volte.

 

Hai mai avuto paura per i tuoi parenti che sono rimasti in Iran durante questi anni?

 

Certo. Ho avuto tantissima paura. Pensa che in questo momento tantissimi Bahà’ì sono in carcere per motivazioni veramente assurde. Accusati di attività contro il regime, contro la sicurezza nazionale. Anche un mio cugino di secondo grado è stato in carcere per tre anni. Credimi, noi non facciamo male a nessuno. Siamo per la pace universale.

 

Ma questo è stato uno dei motivi per cui hai deciso di non rivelare la tua identità in questa intervista?

 

Certamente, ho deciso di rivelare queste cose senza essere riconosciuto per evitare che chi porta il mio stesso cognome a Shiraz possa trovarsi in pericolo. In fondo il mio nome non conta. E’ importante invece che si venga a sapere la verità. Voglio solo poter ritornare a vivere nel mio paese per fare la mia parte, per dare il mio contributo, anche attraverso gli insegnamenti datimi in Italia, perché il mondo è un solo paese e gli uomini i suoi cittadini e quindi giusto unirsi in un’unica cultura globale.

 

Che significato ha per te la parola “viaggio”?

 

Bella domanda. Il viaggio è per me fare un salto, lasciare qualcosa per trovarne un’altra. Non importa il motivo che ti spinge a viaggiare, l’importante è cambiare pagina e cercare qualcosa di nuovo. Ogni persona dovrebbe poter viaggiare per compiere la propria ricerca, per crescere, per aprirsi al mondo. Attraverso il viaggio possiamo aprire la nostra mente a ciò che è diverso.

Abdu-l-Baha.jpg 

A seguito di questa risposta, si è conclusa la nostra intervista. Ci siamo congedati con un forte abbraccio e la promessa di scambiare ancora qualche parola in un futuro non troppo lontano. Sulla strada del ritorno verso casa, ripensando allo sguardo appassionato di Muhammad durante il suo racconto, mi sono convinto di aver vissuto ad un’esperienza unica. Un momento di grande crescita personale che auguro di vivere a tutti voi.

 

Mirko Galante

 

Intervista pubblicata su: www.mygenerationweb.it

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M
Sentir parlare un giovane di 29 anni che, a causa delle persecuzioni religiose ,ha dovuto lasciare il proprio paese fa male.E' vero che per Lui è stata una occasione di crescita e di apertura verso<br /> il mondo ma comunque rimane la tristezza per un grande popolo, dalla cultura millenaria, ostaggio di un gruppo di fanatici che Lo isolano dalla comunità internazionale....e fra poco questa<br /> dittatura avra' l'atomica.....
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G
bellissima intervista!!! complimenti Mirko
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